MI CHIEDONO IN MOLTI
Mi
chiedono in molti: ma come ti è venuta un’idea così bella?
Le idee
volano sempre nell’aria, l’importante è saperle intercettare.Il Memoriale della Shoah di Milano mi ha catturato fin dalla prima volta che l’ho visitato. Mi ha catturato come ti catturano i luoghi tragici della storia, con quel misto di dolore e catarsi, di memoria dell’orrore trascorso e speranza in un futuro nel quale lo stesso orrore non potrà, non dovrà ripetersi.
Di professione sono procuratore sportivo, oltre che occuparmi di comunicazione e di eventi; per me gennaio è mese di calciomercato.
Frenetici andirivieni tra vari alberghi, perlopiù nella zona della Stazione Centrale di Milano. Appuntamenti con il direttore sportivo di turno per parlare di questo o quel calciatore.
Lunghe e spossanti anticamere per sentirsi chiedere: “Hai un esterno destro che rientri sul piede sinistro? No, quello non va bene, è bravo ma è extracomunitario.”
Oppure: “Si è fatto male il secondo portiere, hai qualcuno da propormi?”
E’ evidente che in tutto questo frenetico bazar ci sono delle pause.
Pausa toilette. Pausa caffè. Pausa perché i piedi e la testa a un certo punto ti fanno male e non ne puoi più.
E allora ti viene in mente che oggi, 27 gennaio, è la Giornata della Memoria.
E che, da qualche parte, a pochi metri da dove sei tu, c’è un luogo magico e intriso di dolore che chiamano “il binario 21”, il che suona già abbastanza sinistro di suo.
Guardi l’orologio, dai un’occhiata all’agenda, ti accorgi che tutto sommato per il resto della giornata non hai altri impegni e che se ti allontani per un’ora o due dall’Hotel Hilton o dal Michelangelo non se ne accorgerà nessuno.
La prima volta è andata proprio così.
Una semplice pausa dal lavoro nei pressi della Stazione Centrale.
Come molti, l’ho cercato nel posto sbagliato.
Ma non lo chiamano anche Binario 21? Allora lo cerchi dentro la stazione, da dove partono i treni.
E invece lì non c’è.
I carnefici l’avevano studiata bene, la trappola per topi. Ebrei e oppositori politici salivano da dove nessuno poteva vederli, alla stregua di una lettera o di un pacco postale, dall’ingresso laterale di via Ferrante Aporti utilizzato appunto dalle poste.
Ecco allora il primo, spiazzante inciampo: un luogo che si trova dove non dovrebbe essere.
Perché le persone normali, quelle che prendono il treno per tornare felici a casa e non per andare a morire nelle camere a gas, alla stazione entrano dall’ingresso principale.
Poi la seconda sensazione, straniante: una volta che hai trovato il posto giusto e stai per entrarci sai che non stai per visitare un semplice museo dove troverai foto ingiallite e cimeli consumati dal tempo, sai che stai entrando nel luogo fisico dove la tragedia si è consumata.
Come a Hiroshima. O Marcinelle.
O come a Longarone, sotto la diga del Vajont.
E vedi all’esterno del Memoriale la lunga fila di persone che attendono il proprio turno, silenziose, ordinate.
Ti chiedi: qualcun altro, come me, in fila con me, sta immaginando? Sta ricordando qualcosa che non ha mai vissuto? (Esiste un ricordo così, la memoria collettiva ha questa capacità magica, osmotica?)
E’ qui che entravano i camion carichi di “stucken”, pezzi, avevano attraversato la città, portavano gente innocente all’appuntamento con la propria morte. Spesso senza alcun motivo se non quello di essere nati da certi genitori piuttosto che da altri. Di credere in una cosa piuttosto che in un'altra. Di cucinare certi cibi in un certo modo piuttosto che in un altro.
E allora aspetti (al freddo, come loro, è gennaio adesso, era gennaio nel 1944).
E immagini. E ricordi. E ti incazzi anche un po’.
Poi entri nel Memoriale e la tua percezione delle cose cambia. I vagoni. Il montacarichi. L’elenco dei deportati, in giallo i pochissimi sopravvissuti.
E la tragedia prende vita. E ti senti anche un po’ in colpa, perché per una cosa così atroce, così disumana la colpa ce l’abbiamo un po’ tutti, non è così?
Anche noi che non c’eravamo. Noi che non c’entravamo.
Poi esci di nuovo nel gelo milanese. Sempre con quell’immaginario, quei ricordi-non ricordi.
E adesso ti prende quella strana voglia di prendere una macchina del tempo e correre là a fermare tutto. Di dirgli di smettere. Di tirare giù dai vagoni uomini, donne, bambini, uno ad uno. Di rimandarli a casa loro.
Ma non si può. Non si può più.
Allora anno dopo anno, calciomercato dopo calciomercato, in quel posto ci torni.
Nelle pause, certo. Il lavoro spesso quelle pause non te le concede, al Memoriale spesso non ci pensi proprio.
Ma qualche volta sì, che ci pensi. Perché quel 27 gennaio è fatto apposta per pensarci. Per pensare a Luciano Israel Roditi. O a Vittorina Richetti. O a Ester Rimini.
E per chiederti che faccia avessero. E che sogni avessero. E che cosa avessero fatto di male, perché dovevano aver fatto qualcosa di male, giusto?, se no non te ne fai una ragione.
Non ce la fai.
Non ci puoi credere.
Ecco com’è nata l’idea.
Tutto qui.
Nient’altro, davvero.
Il resto sono dettagli.
Le foto di Anna Frank con la maglia della Roma a fine ottobre.
L’idea che: basta, non ne possiamo più, bisogna dire qualcosa, bisogna fare qualcosa.
Per una volta voglio far sì che al Memoriale della Shoah, al Binario 21 della Stazione di Milano, invece che andarci da solo, d’inverno, e di immaginare da solo, di ricordare da solo l’irricordabile, di uscire da solo con quella strana voglia di prendere la macchina del tempo, ci andiamo in tanti, tutti insieme, immaginiamo in tanti, ci sentiamo male in tanti.
E in tanti ricordiamo quello che in realtà non abbiamo mai vissuto.
Serve tanto a noi e, chissà, forse un po’ anche a loro.
Grazie, Gian, anche da parte di mio nonno Edgardo che a Auschwitz ci è arrivato senza partire dal Binario 21. E da cui non è più tornato, purtroppo. E' stata proprio una bella idea.
RispondiEliminaGrazie a te per le belle parole e grazie anche a nonno Edgardo. Un forte abbraccio
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