MANEGGIARE CON CURA

La scritta sul pacco, tutto sommato anonimo, con quella sua spessa carta di colore indefinibile e lo spago un po' sfilacciato, campeggia chiara e inequivocabile: "Maneggiare con cura".
Il pacco potrebbe contenere un bauletto, o una piccola scatola di cartone, poco importa.
Potrebbe essere arrivato con la posta di stamattina o essere stato trovato in una vecchia soffitta.
Importa quello che c'è dentro e soprattutto l'invito...
Dite un po' quello che volete.
Che sono iniziative all'inseguimento di un passato irraggiungibile.
Che testimoniano dell'inevitabile passare degli anni, dei piccoli acciacchi, delle immancabili pancette (ahia...), di qualche ricordo sbiadito che, a differenza delle rughe, sbiadisce ogni giorno di più.
Che sono forse anche un po' tristi perché a giocare con i ricordi (come ci ammonisce la scritta sul pacco) si rischia di farsi male.
Ma quella che si è svolta venerdì sera su due differenti scenari (quasi su due diversi piani spazio-temporali, come in una solida storia di fantascienza): la vecchia scuola media davanti alla quale alcuni di noi si sono ritrovati in un cerimoniale semplice e suggestivo ed il successivo appuntamento nella splendida casa di G.R. (grazie ancora, di cuore!) è stata per molti versi una serata memorabile.
Nella peggiore delle ipotesi, perfettamente riuscita (grazie di cuore, straordinaria R.F.! e anche a C.O. che mi ha riaccompagnato a casa!)
Nella migliore, il miracolo di fermare il tempo per un attimo e di riportare indietro di quarantadue anni le lancette dell'orologio.
Operazione rischiosa, si capisce, stile "Piccola città" di Thornton Wilder.
Il "come eravamo", inevitabile, rischia sempre di sbandare alla stretta curva del "chi è rimasto e chi no", anche se si tratta semplicemente di assenze dall'appartamento di G.R. e non dallo scenario del mondo.
E anche il riferimento esplicito di A.P. alla morte nel suo bellissimo, sentito discorso, si limita ad un accenno garbato, lieve, quasi inoffensivo.
Perché dolore e morte, forzatamente, in una serata come questa sono bandite dal reame della nostra "reunion" come dalla vista dell'ignaro Siddharta, se non altro in nome del nostro semplice, innegabile "esserci ancora".
Forse l'arma più potente di tutte.
La Madre di tutte le bombe.
Insieme a quell'amore che nonostante tutto, nonostante il tempo e la prolungata lontananza, proviamo gli uni per gli altri se non altro per una semplice, banalissima, basilare ragione: che abbiamo percorso insieme un tratto non lunghissimo ma fondamentale delle nostre esistenze.
Il tratto delle prime cotte e delle prime, piccole, orgogliose indipendenze economiche (grazie, G.G., per lo splendido ricordo di mia mamma e della scatolina liberty!), dei primi film che andavamo a vedere da soli (vero, R.F. e G.G.?) con quell'aria eccitata e furtiva da piccole donne e piccoli uomini alla conquista del mondo.
E adesso che "piccole donne" e "piccoli uomini" sono cresciuti, si sono anche guadagnati il diritto di giocare per una volta ai viaggi nel tempo, al "proviamo a vedere come ci si sente" a far finta di essere ancora in quella classe, in quel preciso momento del passato nel quale eravamo meravigliosamente, doverosamente, beatamente ignari di quanta strada avremmo percorso nei quarantadue anni successivi.
Di quante cose ancora avremmo imparato.
Quanti volti incontrato.
Quante persone, e cose, e profumi e sapori e panorami avremmo amato. E poi forse dovuto lasciare. Ma non prima, appunto, di averli amati.
(E a questo punto, mia cara G.G., quanto a retorica ed enfasi è un bel match...)
Proprio G.G. l'altra sera ha brindato alle nostre utopie, alle nostre primavere...
Poi ha aggiunto: "Ci amiamo... Io sento che vi ho lasciati avanti ieri..."
Appunto.
Sta per suonare la campanella di fine ricreazione. Dobbiamo tornare in classe.
Tutti insieme, ancora una volta.

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